Nel dicembre 1971 viene emanata in Italia la legge 1044, che sancisce l’inizio di un nuovo servizio pubblico per la società: il Nido d’infanzia. Viene varato un piano quinquennale per la realizzazione di 3800 asili nido comunali dislocati sul territorio nazionale, con “lo scopo di provvedere alla temporanea custodia dei bambini, per assicurare una adeguata assistenza alla famiglia e anche per facilitare l’accesso della donna al lavoro nel quadro di un completo sistema di sicurezza sociale.” In poco più di un quarantennio questo servizio è entrato a far parte della quotidianità di tante famiglie rispondendo ai bisogni di cura, custodia ed educazione dei bambini. Il Nido non è una struttura che sostituisce l’impegno e la responsabilità educativa della famiglia, ma piuttosto una possibilità di sostegno e cooperazione con l’obiettivo condiviso dello sviluppo e della crescita del bambino. La realtà del Nido ha avuto origine alla fine dell’Ottocento, con la richiesta sempre maggiore da parte delle fabbriche della manodopera femminile. Le donne, intraprendendo un’attività lavorativa fuori casa non potevano più accudire a tempo pieno i propri figli e così si appoggiavano a strutture ad essi dedicate secondo i concetti di assistenza e custodia, soprattutto dal punto di vista igienico e sanitario. Verso la stessa direzione si muoveva l’ONMI (Opera Nazionale per la protezione della Maternità e dell’Infanzia) nel periodo fascista, creando degli spazi adiacenti alle fabbriche per garantire un’assistenza prevalentemente sanitaria alle donne che vi lavoravano, dando così all’istituzione un taglio più ospedaliero che educativo.
La prerogativa educativa del nido infatti si rivela con la legge del 1971 e da quel momento in poi cambia anche il rapporto con i genitori: essi sono chiamati a una collaborazione con le educatrici, anche grazie alla nuova concezione che si andava sempre più diffondendo del bambino non più visto come un “uomo in miniatura” ma come una persona in formazione, che sta vivendo un periodo della sua vita, proprio come tutte le altre persone “grandi”. Col tempo si è arrivati a considerare il Nido un vero e proprio luogo di relazioni. Il Nido è dunque un servizio educativo volto a favorire lo sviluppo e la crescita dei bambini dai tre mesi ai tre anni di vita; si propone di offrire opportunità e stimoli che consentano la costruzione dell’identità, dell’autonomia e dell’interazione con altri bambini e adulti: il bambino è protagonista del suo processo di crescita. All’interno del Nido, oltre a essere garantita la cura e il benessere fisico, particolare attenzione è posta nel favorire lo sviluppo sotto il profilo psicologico e relazionale. Ogni bambino può esprimere liberamente le proprie caratteristiche individuali in un percorso verso l’autonomia che lo aiuterà a costruire la fiducia in sé stesso e a sviluppare il piacere di imparare. Il servizio pubblico non è in grado di soddisfare il bisogno di tutte le famiglie di inserire i bambini al nido, per questo motivo si affianca alla rete dei servizi per la prima infanzia pubblici un folto numero di servizi privati, gestiti sotto forma di cooperative, società, associazioni, ditte individuali. Per alcuni di essi esiste una convenzione con alcuni comuni che si impegnano a partecipare alla spesa in carico alle famiglie per far fronte al pagamento delle rette, per la maggior parte tutto il costo è a carico delle famiglie e le strutture non ricevono, dalla stato, nessun tipo di sovvenzione o contributo. Nel corso del tempo il Nido è diventato una risorsa per la comunità intera.
A seguito del primo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, emanato il 4 marzo 2020, che ordinava la chiusura di servizi educativi e scuole di ogni ordine e grado, i nidi d’infanzia hanno dovuto serrare da un momento all’altro, senza preavviso, le proprie porte ai bambini e alle bambine che sino al giorno prima passavano tra quelle mura tante ore delle loro giornate e sono state tra le prime aziende a fare le spese del blocco generale delle attività.
Nelle ultime settimane si è potuto leggere in rete e sui quotidiani, e vedere in televisione, della polemica sul pagamento delle rette dei servizi educativi per l’infanzia privati. Non tutti immaginano che i servizi privati non hanno mai avuto né hanno attualmente ricevuto contributi o fondi statali; essi garantiscono tutto ciò che le famiglie vivono e vedono ogni giorno quando varcano la soglia dell’ingresso esiste perché delle persone hanno investito tutti i loro risparmi, tutte le risorse, il tempo, e i genitori pagano le rette ogni mese. Queste coprono a malapena i costi esorbitanti che un servizio per la prima infanzia richiede (stipendi del personale dipendente, contributi previdenziali, INAIL, utenze, affitto, mensa, software gestionali, spese di pulizia e sanificazione, materiale didattico, le assicurazioni obbligatorie, i sistemi di gestione della sicurezza e l’autocontrollo alimentare, i mutui accesi per avviare l’attività, commercialista e consulente del lavoro, tasse… tante, tributi vari ETC.). Al momento l’unico provvedimento a sostegno è stato quello di concedere la cassa integrazione in deroga per nove settimane per il personale, mentre tutte le spese relative al pagamento delle tasse sono state solamente rimandate al mese di maggio e giugno. Riguardo il provvedimento per gli affitti e possibile accedervi solo per i locali accatastati come negozi e botteghe, categoria nella quale i servizi educativi non possono ricadere. Le così dette “pretese” di incasso delle rette altro non sono che stato di necessità: non bisogna essere fini economisti per capire che un’azienda se non ha ingressi finanziari ma mantiene le spese è condannata a chiudere.
Ormai la riapertura delle scuole è destinata a non avvenire prima del mese di settembre, e riguardo scuole dell’infanzia e servizi educativi per la prima infanzia si vocifera che, per via dell’impossibilità a mantenere il distanziamento sociale adeguato e di garantire l’uso dei dispositivi di protezione individuale, tale riapertura potrebbe avvenire anche ad autunno inoltrato se non addirittura più avanti. Come far sopravvivere questi servizi in stand-by sino ad allora?
Gruppi e comitati spontanei di titolari delle migliaia di strutture private operanti sul territorio nazionale in queste settimane stanno rivolgendo alle istituzioni a tutti i livelli accorate richieste di sostegno, perché questo problema non resti sulle spalle delle strutture, che stanti così le cose saranno condannate inesorabilmente alla chiusura, con il conseguente licenziamento del personale impiegato e il disagio delle famiglie che alla ripresa della vita quotidiana non avranno più un luogo e delle persone a cui affidare i propri bambini, ma nemmeno sia completamente a carico delle famiglie che in questo momento storico non hanno le risorse finanziarie per pagare le rette di un servizio di cui non possono fruire.
Della Dott.ssa Martina Fanni, pedagogista titolare del Nido Il Piccolo Principe – Oristano